Da sempre gli abitanti dell’arcipelago delle Tuamotu raccoglievano ostriche perlifere. Naturalmente lo facevano quelli dotati di una maggiore capacità polmonare o che comunque riuscivano a stare più a lungo sott’acqua senza respirare. La tecnica era semplice e intelligente: una pietra, assicurata a una cima, consentiva al pescatore - ma forse è più giusto definirlo raccoglitore - una discesa molto veloce e soprattutto con pochissimo consumo di energie. La risalita in superficie, gravata dal peso della pietra, del canestro con le ostriche e del subacqueo più i notevoli attriti, era a carico quasi totale del compagno sull’imbarcazione il quale, a grandi bracciate e alla maggior velocità possibile compiva questa operazione svariate decine di volte al giorno. L’equazione è elementare: più tuffi, più tempo sul fondo, recuperi più rapidi e ottimizzazione dei tempi morti equivalgono a un maggior numero di ostriche raccolte. Con qualche ma. Capitava che qualche tuffatore risalisse accusando qualche strano malessere, non riuscisse a parlare bene, storcesse una parte del volto in una espressione grottesca, non potesse più muovere un braccio o una gamba o tutti e due. Le prime volte avranno riso, gli altri. E avranno battezzato questi comportamenti bizzarri come bizzarri, appunto, provocati chissà da quale sconosciuta forma di pazzia: l’hanno chiamata pazzia, taravana nella loro lingua. Intanto qualcuno ci lasciava le penne, ma le ostriche erano lì, bisognava prenderle (continua sul giornale).
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