Matteo Spiga

Mangiabarche, a Calasetta, è uno scoglio il cui nome è tutto un programma. Ben lo sanno, infatti, gli sfortunati navigatori che hanno avuto a che farci e che lì hanno compromesso la barca. Si tratta di uno scoglio, vicinissimo alla riva, che fa parte di un braccio, in parte sommerso, insidioso nel complesso, nonostante il faro che si erge nella sua porzione centrale. Ma, se da una parte rappresenta una seria minaccia per barche a vela e a motore, dall’altra, Mangiabarche, si rivela una sorta di scrigno con un tesoro vero e proprio. Così ci racconta Matteo Spiga, 39 anni, cagliaritano, che in quelle acque, armato di pinne e fucile si è fatto le ossa.
Ci vuoi dire qualcosa di più? Mangiabarche è situato nella costa nord-occidentale dell’isola di Sant’Antioco, nei pressi dell’ex tonnara. Si raggiunge in auto e si entra in un ambiente selvaggio, caratteristico per la vegetazione bassissima e una roccia policroma e irregolare di origine vulcanica che anticipa, pari pari, l’ambiente subacqueo. Si tratta di uno spot abbastanza frequentato ma ancora utile, soprattutto al neofita, perché accessibile, con quote operative a tutti i livelli, fino a 20 metri di profondità. Troviamo in riva un pianoro, ma anche canaloni che invitano all’agguato. Quando frange l’onda si popola di animali e quello che poteva sembrare un insignificante spot si trasforma in una piazza affollata. A sinistra, guardando il mare, un evidente scalino accompagna il subacqueo negli “abissi”, fino a 15-18 metri. Massoni e spaccature si alternano alla posidonia dove è facile incontrare saraghi, orate, dentici, spigole e barracuda e, sempre verso Sud, tra le “franate”, cernie e corvine di non grosse dimensioni. Nel periodo che va da novembre a gennaio, con Ponente e Libeccio frizzanti, è possibile divertirsi nella schiuma e magari fare anche una cattura importante.
I tuoi primi passi? In famiglia avevamo una casa a Torre delle Stelle e la passione per la pesca in apnea era comune tra gli adulti. Mentre mio padre e i miei zii andavano in cerca di pesci sott’acqua, io mi svezzavo tra gli scogli a caccia di ghiozzi con una lenzetta a mano. Ero giovanissimo. A 6 anni però capisco quale sarebbe stato il mio futuro, mentre stringevo tra le mani un piccolo polpo: la mia prima vera cattura a pescasub.


L’evoluzione? Da quel momento, dopo quella fantastica cattura, alternavo alla lenzetta, timide uscite con gli adulti. Seguivo mio padre, guardavo e imparavo sul campo. Una lunga gavetta di 10 anni. Poi il mio primo fucile, un’arbalete Viper 75, scambiato con Gianfranco Spiga per un paio di scarpe da tennis. L’affare ha portato fortuna a entrambi: a me nel mondo subacqueo, a lui nei campi da tennis. Il mio esordio con un’arma vera è stato fantastico. All’aspetto, nella secca bassa di Torre delle Stelle, di fronte alla spiaggia di Genn’e mari, presi un dentice che a me è sembrato enorme. È stato la molla che mi ha convinto di puntare su questa tecnica, l’aspetto. All’epoca leggevo tutte le riviste di pesca ma in acqua andavo sempre con i familiari. A diciotto anni, patentato, ho iniziato a muovermi con amici e mio cugino.
Un’esperienza del periodo? Andavo parecchio a S. Caterina di Pittinuri, è un sito che tuttora mi affascina. Zaino in spalla, dopo un po’ di trekking, lasciavo il bagaglio nascosto in uno dei tantissimi anfratti. Mi ricordo che alla base di un alto panettone a 18 metri, che arrivava a 5 metri dalla superficie, c’era una spaccatura con centinaia di grossi saraghi da chilo. Pensavo di fare un gran bel carniere invece, preso il primo, gli altri sono spariti. Quel nuvolone di strisce verticali è stato un vero spettacolo, purtroppo non si è mai più ripetuto.
Continua… Poi c’è stata una breve parentesi a ventidue anni, per lavoro, in Sicilia, come contabile. Dopo un anno di astinenza, ho portato l’attrezzatura a Gela e ho ripreso a pescare nei fine settimana, poco a sud di Siracusa, a Marina di Avola. Un fondale di grotto, lastricato, con tanto pesce bianco per la pesca a razzolo e all’aspetto. Comunque mi muovevo in solitario, alla scoperta di nuovi posti e fino a 28 anni. Nel 2008 finalmente rientro in Sardegna, abbastanza carico, anche economicamente. M’iscrivo a un corso di apnea da Air Sub con Ugo Montaldo nelle vesti di istruttore. Scopro così un mondo nuovo che conoscevo solo per sommi capi. Perfeziono la pinneggiata, la capovolta, ma soprattutto imparo le tecniche di rilassamento. L’apnea ne giova senz’altro, tanto che trattenevo il fiato per almeno 2 minuti all’aspetto. Frequentando Air Sub, stringo amicizia con diversi personaggi: Dario Maccioni, Luca Carlini, Sergio Cardia, Luca Fenza, Antonello Dessì e altri, una bella cricca. Poi partecipo a un corso di pesca con Mauro Meloni e con la consulenza di Sergio Cardia mi rifaccio l’attrezzatura: pinne in carbonio e fucile arbalete più lungo. Compro anche il gommone che tuttora galleggia a Marina di Capitana. A questo punto ho tutto l’occorrente e le trasferte non si contano più, a Oristano, Carloforte, Orosei. Tra tutti, io e Dario eravamo particolarmente incuriositi dalla profondità e a piccoli passi, metro dopo metro, ci siamo spinti sempre più in giù.
Dove sei arrivato? Oggi, al massimo scendo a 50 metri, ma non sempre. Purtroppo il lavoro m’impegna mentalmente e fisicamente e la compensazione, anche se mi alleno costantemente, non sempre risulta ottimale.
Un episodio da ricordare? Lo scorso anno, in questo periodo, con Dario Maccioni, a Sant’Antioco. Usciamo da Portopino, diretti verso le isole (il Toro e la Vacca), su un fondale di 46-47 metri. Dario mi concede il primo tuffo su un suo punto che io, naturalmente, non conoscevo. Già a 20 metri individuo un branco di dentici, almeno 100, molto grandi, a mezz’acqua, e sul fondo oratone a gogò. Potevo sparare in caduta ma cercavo il dentice più grosso. Mi appoggio sul fondo per sparare con tranquillità grazie a un buon nascondiglio e un’ottima visuale. Potevo sparare dentici di 6-7 chili ma ho aspettato il più grosso. Nuotava dalla sabbia verso la secca e mi passa di lato, un po’ alto. Lo centro subito dietro la testa e nello stesso tuffo lo recupero: 12,3 chili. Poi è la volta di Dario che scende e per non sfigurare risale con un mostro, un altro dentice di ben 10 chili.
La sfiga? Basta poco: tre ricciole perse in una sola giornata… a traina, giusto Luca Fois?
Hai elettronica a bordo? Due strumenti. Un eco Furuno da 9 pollici e un multifunzione Garmin sempre da 9 pollici con Side e Down view e circa 2000 punti Gps per pescasub e traina.
Il tuo socio? Sette anni fa ho conosciuto Cico Natale, in vacanza, a Villasimius. Ci incontriamo in porto col gommone e organizziamo una battuta alle secche di Costa Rei, quella dei 12 e del Ponzese. Siamo stati bene, ci siamo divertiti e naturalmente abbiamo pescato entrambi. Ora siamo culo e camicia. Con lui ho avuto la fortuna di conoscere e fare cricca con Fabrizio Accorte, grande persona e pescatore, purtroppo non c’è più.
Parliamo di ambiente! Che dire… il mare soffre tanto! I fondali sono devastati dallo strascico e pieni di rifiuti di ogni genere. I ricci sono scomparsi. Purtroppo l’interesse principale non è la tutela dell’ambiente. Non ci sono controlli. Nel golfo di Cagliari, ai Graniti, per stare vicini, è pieno di reti, nasse e ogni trappola possibile, tutte abusive. E i controlli non ci sono. Del resto anche i parchi e le aree protette, sono impianti fuori controllo, quindi inutili se non per gli stipendi che garantiscono. Abbiamo un modello poco più a Nord, in Corsica, funziona perfettamente ed è ben tollerato da tutti. Si basa su aree totalmente interdette ma limitate, quindi facilmente controllabili. Sono istituite per periodi altrettanto limitati, a rotazione. In Italia invece, i parchi sono perpetui e di dimensioni gigantesche, ripeto, sono inutili. Purtroppo è una logica che nulla ha a che fare con la tutela dell’ambiente e chi ci rimette è il mare.