Luca Porcella

Maggio, periodo di lecce, un sabato qualunque. Scarrelliamo di buon mattino a Marceddì, col mio amico Giuseppe Lonis, bravo surfcaster. Obiettivo: la secca fuori dalla 24, a circa un miglio. Il fondo sale da 13 a 8 metri. Si tratta di una striscia di grotto molto ben traforato, lunga circa 200 metri e larga 25-30. È un ottimo posto con mare in scaduta da NW, ancora un po’ tordibo, con 5 metri di visibilità al massimo. Ci sono molti barracuda e ce n’era uno in particolare che ha pesato 10 chili e mezzo, testimone Cristian Cadelano. Ci sono anche serra, pochi ma grossi, tra questi ce n’era uno di 11 chili. E ancora corvine grosse e saraghi, purtroppo difficili da catturare per la conformazione del fondo estremamete irregolare. L’avvicinamento deve essere “da manuale”, molto silenzioso in stile agguato. Insomma per avere risultati devi essere bravo e conoscere il po-sto. Comunque... Al primo tuffo la muta si aggancia nel gommone, credo. Risultato? Una “foglia” sul gomito. L’accaduto m’infastidisce, ma scendo col compagno. Il gommone è ancorato e finalmente ci muoviamo, io a sinistra e lui a destra. Ci rincontriamo dopo un po’: Giuseppe con un sarago da chilo e un barra da 5, io qualche pesce l’ho solo visto e tanto m’infastidisce di nuovo. Ero ancora inesperto e per reazione lo sommergo di domande, tipo: come li hai presi? Quindi ci trasferiamo, sempre verso Capo Frasca. Ci fermia-mo per una tappa intermedia su un fondale a 15 metri. Un’area di 200-300 metri quadri. Prendo il mio 87 e m’immergo. Vedo diverse corvine sul fondo, la visibilità è scarsa. Mi avvicino molto a un bell’esemplare ma il pesce scarta il tiro e l’asta finisce sulla roccia e si danneggia storcendosi. Anche qui m’infastidisco. Poi, con l’esperienza, capisco che la corvina, quando è ferma, è capace di scatti fulminei, mentre ha una razione più lenta se è in movimento. Quindi, adesso, anche a costo di perdere tempo, sparo solo se l’animale è in movimento, anche se in tana). Risalgo per raddrizzare l’asta mentre Giuseppe continua il suo “mieter vittime” aggiungendo al carniere un altro saragone e un marvizzo. “Forse non è la mia giornata!”. Navighiamo per un altro miglio e mezzo fino ai pressi di Capo Frasca. L’acqua è ancora più torbida e la corrente è sostenuta. Penso a qualche pesce di passo e quindi all’aspetto. Noto del movimento: barracuda e un’ombra grande che poteva essere una leccia o una ricciola. Sono molto emozionato, è la prima volta che intravedo pesci grossi. Comunque prendo solo un sarago da mezzo chilo. Giusep-pe invece un altro saragone. Adesso sono più tranquillo, ma è già ora di pranzo e dobbiamo rientrare. Convinco Giuseppe, ormai pago... solo mezz’ora. Decidiamo di andare alla girata di Capo Frasca (sulla punta). Ci sono 5-6 metri di fondo, mare torbido e corrente sostenuta. Giuseppe mi urla dal mare: “ho visto una leccia”. Vado di nuovo sotto, in un canale, limite tra roccia e posidonia, e vedo le castagnole ammassate sul sommo che lasciano presagire la presenza di pesci predatori. Inizio l’aspetto col battito accelerato mentre le castagnole si muovono agitate. Improvvisamente si schiacciano, come fanno di solito in presenza di un pericolo. Purtroppo non vedo la minaccia, finché un’ombra indefinita giunge dalle mie spalle e mi passa sopra. Allo spavento iniziale segue comunque, immediato, uno sparo. Col mio 97 colpisco una grossa leccia, non la fulmino ma è ben presa. Piano piano recupero il pesce e lo abbraccio, sono euforico, emozionato. Il primo pesce grosso della mia vita (16 chili). Mi dirigo al gommone con l’animale in cintura e faccio ancora altri aspetti. All’ultimo, a 50 metri dal gommone, noto da una roccia, lo strano com- portamento di una colonia di castagnole. Allungo l’aspetto e un leccione mi punta, di fronte, lento. Come il predatore si gira poco poco sparo e lo fulmino. Due lecce in mezz’ora, l’ultima mezz’ora di una giornata di pesca iniziata malissimo. Sono al settimo cie-lo. Giuseppe è senza parole, ma felice quasi quanto me. Lui ha pescato bene e io due lecce, la seconda pesava 9 chili. Dopo questa esperienza, a maggio e ottobre, cerco sempre le lecce e sempre trovo.”.

 


Esordisce così, Luca Porcella da Terralba, anni 46, caparbio e determinato. Sportivo da sempre, giovanissima cintura nera di judo e sei volte campione sardo, bronzo agli italiani del ’90 e oro nel ’91 all’internazionale Osaka-Nuoro.
Come hai iniziato a pescare? Iniziai col surfcasting, a Pistis, Torre dei Corsari e Costa Verde in generale, ma non sono mai stato un fanatico. Ventiquattrenne, in seguito a un infortunio sul lavoro fui costretto per due anni in sedia a rotelle. Da qui la necessità di rimettere in moto le gambe. Una sera, avrò avuto più o meno trent’anni, in spiaggia, scorsi un figuro uscire dall’acqua e calpestare le rocce a poca distanza. Era un mio amico che trascinava pinne e fucile e un ricco carniere con evidente soddisfazione. Quella scena si riaccese molte volte nella mia mente, per diversi giorni, finché decisi di cimentarmi sott’acqua nella caccia subacquea. Due anni dopo le due lecce, feci il corso di Apnea academy con Biagio Iervolino, a Oristano, nel 2009. Ero già esperto di training autogeno per il mio passato sportivo nelle arti marziali e quel circuito mi sembrò adatto. C’era anche Cristian Cadelano, a volte mio partner, e comunque grande atleta, già protagonista proprio nelle pagine di questa rivista.
Quindi vai fondo? Non sono un profondista, per scelta. Non esaspero le performance. Preferisco sfidare le prede e avvicinarmi a loro il più possibile. Infatti uso due fucili soltanto, uno da 87, l’altro da 97 centimetri, entrambi non sono mostri di gittata. Come ti definisci? Io mi adatto alle condizioni di pesca. Ad esempio, d’estate mi muovo nella fascia da 20 a 25 metri. Se l’acqua è pulita razzolo a 4-5 metri per leggere il fondo, con piombatura equilibrata, per avvicinarmi in caso di prede in tana o per fare l’aspetto o un agguato. Se l’acqua è torbida pesco “a segnale”, da qualche anno solo a cernie. Oppure “scorro” a pinne per fare l’aspetto o l’agguato. Ma la mia pesca preferita è senz’altro l’aspetto. Ho molto fiato.
Un pesce “strano”? Insolito, più che strano, ma anche strano, il San Pietro. Ne sparai uno di due chili e mezzo, nel Golfo di Oristano, in due metri d’acqua. Sembrava un balestra. Tra parentesi quest’ultimo è buonissimo. Fa un po’ di odore in cottura, ma, fatto alla catalana, con il tuorlo d’uovo sodo emulsionato nell’olio, è insuperabile.
E il più grosso? Un tonno di oltre 60 chili, nel 2013, fuori da S. Caterina di Pittinurri, con Daniele Mannai. Cercavo di convincere Daniele a tonni, ma lui non se la sentiva. Il giorno andammo col mio gommone e forzando la sua volontà lo portai su una mangianza. Mi tuffai in un mare di pesci, una libera tonnara di grossi esemplari che mi giravano intorno, veloci. Un po’ smarrito persi l’attimo per il fuoco, ma in risalita ne trovai uno sopra di me. Sparai e per tre ore rimasi attaccato al pesce. Sbobinato il mulinello Daniele mi passò due parabordi che legai per sicurezza al sagolino, intanto quello andava. Al primo cenno di stanchezza lo risparai e per 10 minuti... vai con un’altra fuga. Poi, alla seconda pausa un altro sparo, definitivo. E non vi racconto il casino per issarlo a bordo.
Cosa pensi delle aree protette?
L’area marina protetta del Sinis - isola Mal di Ventre è enorme, occupa un area vastissima ma è priva di significato. E così sono tutte. Non è possibile controllarle e quindi proteggerle. Abbiamo realtà nel Mediterraneo molto più credibili, ad esempio in Francia, Corsica compresa: le aree interessate, sono molto più piccole, valgono per qualche anno e ruotano, così da interessare tutta la regione. Qui, non è l’ambiente l’interesse principale ma poltrone e posti di lavoro.