Daniele Petrollini

Una vita intensa, dagli Appennini al Monte Dolia, sempre col fucile carico e un’infinità di pesci da raccontare in un trascorso agonistico di grandissimo livello.

Daniele Petrollini, classe 1972, architetto, imprenditore, di origine umbra ma algherese acquisito, con madre e moglie sarde, è un pescatore subacqueo, di quelli con P maiuscola. Uno che ha fatto gavetta e ha raggiunto posizioni d’eccellenza. Daniele, in barba alle sue origini, a metà strada tra Tirreno e Adriatico, il che farebbe supporre tutto, meno un futuro rivestito di neoprene, non si è mai posto il proble-ma e d’estate e per circa tre mesi ogni anno, galleggiava o stava a fondo, bea-to, in Puglia, nel suo Mar Ionio. E così fino quasi alla maggior età. La costa, da quelle parti non ha falesie. Risulta bassa, anche se rocciosa e il fondale digrada lentamente. È una palestra interessante con diverse beach rock, come quelle del Golfo di Cagliari, antiche linee di costa, localmente chianche, a diverse distanze ma abbastanza ravvicinate. Un serbatoio di polpi, tordi e mormore, ma anche saraghi, corvine e cerniotti, e orate sui 13, 14 metri che si avvicinavano dopo la mareggiata. Compiuti i 18 anni Daniele si ritrova in Sardegna con casa a Alghero e una madre soddisfatta e felice per il ritorno “a domo”. Davanti, aveva i doveri dello studio, dell’università, ma a Genova, architettura. E, tra il vedere e il non vedere, incuriosito dal mondo agonistico, si iscrisse, al circolo Sturla di Silvano Agostini, quello delle mute Top Sub.
Parlaci di Alghero. Alghero è una città che sognavo, conosciuta attraverso le pagine di Pescasub. Ancora ricordo le foto e gli avvincenti racconti di pesca. Avevamo casa a Calabona, a 300 metri dal mare e io uscivo di casa già vestito, con la muta, e le pinne e il fucile in mano, pronto per l’agguato. Pescavo nella schiuma, in acqua bassa… quanti pesci, quanti saraghi, quanti spari. Mi ricordo il dolore addominale per le innumerevoli volte che caricavo il fucile.
La prima esperienza forte? Una mattina, uscendo dall’acqua, a Cala Bona, dopo qualche ora di pesca, mi ferma un giovanotto, un po’ sorpreso per il mio carniere a sua detta incredibile. Era il gestore di un diving e mi chiese se facessi anche la pesca all’aspetto. Così mi portò alla madonnina a Capo Caccia, nella speranza di catturare qualche dentice. Allora usavo un T20 96 Omer ma lui mi propose di usare il suo fucile, più lungo, un 106 con un’asta ancora più lunga. Mi immersi davanti a una parete di dentici, almeno una quarantina, con pezzi di 7-8 chili. Sparai quasi subito un animale di circa 7 chili distante due metri e mezzo e lo sbagliai. Subito dopo, ripreso possesso delle mie armi, fulminai un pesce di pari specie, solo un poco più piccolo.
Quando sei diventato indipendente? A vent’anni. M’impossessai del gommone di mio padre, un Novamarine RH 460, e così abbiamo continuato a uscire insieme, io sott’acqua e lui a bolentino, ma durò poco. A 21 anni mi tra- sferii a Genova per studiare.


La prima gara? In Liguria, sistemate le faccende di facoltà, mi avvicinai all’allora Fips. Mi dissero che Agostini aveva messo su un circolo di giovani e dopo due settimane fui iscritto alla mia prima gara ufficiale, una selettiva regionale a Zoagli. Avevo una muta Champion bifoderata da 5 mm con salopette. L’acqua però era freddina: 14 gradi. Comunque arrivai sesto, poco avanti a Paolo Petri che i più datati ricorderanno. Fu un gran debutto, e Agostini vede in me una promessa.
La prima vittoria? Nel ’97, feci l’en plain, 3 primi su 4 gare, con l’accesso agli italiani di seconda.

“Mi ricordo una dritta di Mazzarri, precisa e chiara: “oltre i 30 metri di fronte all’Abamar ci sono le cernie, fruga e vedrai che le trovi.”.


Le successive? Al giro seguente, a Trapani. Non potei allenarmi per un incidente in moto, quindi andai male e guadagnai soltanto una retrocessione. Di nuovo selettive e di nuovo ammesso alla seconda con finale a Santa Margherita di Pula nel 1998. Purtroppo andò male di nuovo. Fui coinvolto in una serie di incidenti compreso un guasto al gommone che dovetti abbandonare per affittarne un altro. Mi ricordo una dritta di Mazzarri, precisa e chiara: “oltre i 30 metri di fronte all’Abamar ci sono le cernie, fruga e vedrai che le trovi.”. E in effetti, tra le altre, sotto una lastra di 3 metri per due, trovai tre cernie di cui una enorme. Tanto però non servì… acqua scura il primo giorno e nebbione, in mancanza di Gps, il secondo, giocarono contro. 4 saragoni non bastarono e così caddì nuovamente nel girone infernale delle selettive. Risalii la china a Follonica e fui di nuovo in pista, era il 1999, arrivai sesto. Quindi nel 2000 disputai a Ugento in Puglia, il primo campionato italiano assoluto: 13°. Poi seguirono altri 5 campionati in prima con piazzamenti onorevoli, e un ottavo a Calasetta nel 2002. L’ultimo, di fila, nel 2005 a Torre San Giovanni in Puglia: 16°. Nel frattempo Borra mi convocò nel club azzurro e ci rimasi per 6 anni. Fui iscritto nella nazionale italiana per il Campionato euro-africano in Portogallo a Lagos, nel 2003. Poi partecipai alla Coppa Europa a Porto Cristo a Maiorca, come garista, con Pedro Carbonell e Josè Amengual. Era il 2004, arrivammo terzi di squadra, io quinto assoluto, pur senza preparazione. Nello stesso anno mi sposai e mi trasferì a Terni. L’anno successivo persi la prima categoria ma nel 2006 vinsi di nuovo il campionato di seconda a Campo Marino in Puglia. Quindi, nel 2007 fui convocato in Spagna, come titolare, per il Campionato euro-africano di Cadiz. Purtroppo diedi forfait: diventai papà. Poi feci il bis. Poi il lavoro… ma dal 2011 al 2016 fui sempre in prima. Retrocessi a Trapani nel 2017.


Una cattura da ricordare? Beh, la ricciola di 40 chili alla secca delle Bisce, quasi vent’anni fa in uno stage di pesca della Effesub. Staccato dal gruppo facevo qualche aspetto, infrutttuosi ma sempre più interessanti. Alla vista di un gruppo di dentici mi gasai. Il mare era ottimale. Di colpo si materalizzò un’ombra scura, una ricciola enorme che mi puntò veloce come per colpirmi. Preoccupato per l’arma inadatta, fui costretto a sparare. Un tiro frontale, poco sotto l’occhio. Ebbi la sensazione di aver colpito il pesce con un ago anziché con l’asta. La ricciola tentò di liberarsi della punta ma cadde sul fondo sulla posidonia. Sembrava vinta. Risalii in superficie per prendere il fucile dalla boa, ma era distante, il filo del mulinello non bastava. Quindi provai a coinvolgere dei velisti francese coi quali non ci capimmo e infine la salvezza: due trainisti innervositi per la mia presenza nella loro rotta di pesca, addirittura senza segnale. Dopo i primi vaffa, spiegata la situazione si prestarono ad assistermi. Caricammo l’animale a bordo per dirigerci verso il gommone d’appoggio. Così dopo l’ormai insinuata preoccupazione per non avermi trovato alla boa, i miei compagni, stupiti, felici e entusiasti per la cattura parteciparono per due ore e mezzo all’insperato shooting fotografico con me, naturalmente, sfinito, ma felicissimo, protagonista.