Amarcord

Amarcord

Era l’estate del ’64; avevo appena compiuto diciotto anni e non avevo ancora la patente. Qualcuno di noi, più grande, aveva anche la macchina: un lusso. In quattro, in “500”, con quattro zaini militari, tre dei quali generosamente distribuiti sulle gambe di chi stava dietro, e i fucili che spuntavano dal tettuccio apribile, sembravamo pescatori subacquei. Due anni prima, mio padre, rigorosamente allo scoccare dei sedici anni, mi aveva regalato un fucile a elastici, tutto azzurro, della Champion, con una fiocina a tre punte, disposte, invece che su un unico piano, a 120° tra loro. La lunghezza del fusto e il diametro delle gomme non promettevano moltissimo, ma quel fucile ce l’ho ancora, gelosamente conservato. Anche una maschera, un boccaglio e le pinne facevano parte del regalo. Queste ultime erano così corte che dovevi frugare nello zaino per controllare se ci fossero e la maschera, gialla, col vetro unico grande come una pizza, anche esso curiosamente giallo, aveva una particolarità preziosa: sui lati c’erano due piccole asole che permettevano l’introduzione e il fissaggio delle stanghette degli occhiali: una sorta di maschera ottica, primitiva ma per me, miope, indispensabile. Il boccaglio, progettato in modo che la maggior parte dell’acqua non potesse defluire, provocava una fastidiosa tosse fuori stagione. La muta già esisteva, nei nostri sogni (continua sul giornale).